IL COLORE DELLA
        MISOGINIA 
        Carolrama
		
		“Eretico, erotico, 
		erratico”: così l’artista ed il suo lavoro furono etichettati nei tardi 
		anni ’70.
		
		Carol Rama aveva allora 
		cinquant’anni e le sue opere avevano già viaggiato in tutto il mondo – 
		Parigi, Berlino, New York – ma tuttavia alcuni sentivano l’esigenza 
		ridefinire, circoscrivere e specificare i confini simbolici della sua 
		estetica: non conformista e non compromessa con le pressioni del mercato 
		dell’arte; elegante e, nel contempo, esplicita; ribelle e, insieme, 
		affabile: che era dunque Carol Rama? Il ritratto che dell’artista veniva 
		tracciato corrisponde alla Carol Rama reale e al suo lavoro?
		
		Come Georgia O’Keeffe 
		preferiva vestire sete grezze nere, beige o bianche, lane tessute a 
		mano, lino non lavorato. Il modo in cui Carol Rama si vestiva nel 
		passato, sul finire degli anni ’30 così come nel presente, richiama 
		l’essenzialità e la sobria eleganza della tunica indossata così come 
		dell’abito da sera. Ma mentre Georgia O’Keeffe scelse di lavorare nella 
		luce ardente del sole che splende nel deserto del New Mexico, Carol Rama 
		optò per la luce fioca di un grande studio che guarda sul fiume Po, a 
		Torino, frenetica metropoli industriale del Nord Italia. E’ lì che 
		lavora. E’ lì che osserva le persone. Ed è sempre lì che ha 
		collezionato, come un’onda che si infrange sulla spiaggia, 
		oggetti,relitti depositati da quell’oceano che rappresenta l’arte del 
		XX° secolo: un braccialetto d’avorio, regalo di Man Ray che a sua volta 
		aveva ricevutola Paul Eluard; la scatola in cui Man Ray custodiva la sua 
		macchina fotografica; una pietra donatale da Edoardo Sanguineti; alcune 
		aste bianche e rosse che un giovane amico aveva rubato per lei alla 
		sezione autostrade che, sostiene Carol Rama, “sono più belle delle 
		sculture di Henry Moore”. Ci sono anche “mille” camere d’aria,una natura 
		morta dipinta per lei dal poeta Montale nello stile di De Pisis il ci 
		lavoro entrambi amavano.
		
		La decisione di 
		Carol Rama di tenere la luce naturale fuori dal suo studio-casa, vago 
		ricordo della scelta di Emily Dickinson di vivere al buio, rimanda al 
		soggetto della sua arte e alla componente onirica della sua pittura. Il 
		rifiuto del paesaggio, degli alberi, dei fiori, del mondo esterno e 
		della luce mutevole della natura è premessa di tutto il suo lavoro. Gli 
		oggetti finiscono sulla tela come se fossero completamente sradicati da 
		qualunque cornice o riferimento: dentature, sedie a rotelle, scope, 
		pale, urinatoi, scarpe, si ripetono sulla superficie delle sue opere 
		come se si fossero riprodotti da sè: Opera n. 15 (1939), La Palette 
		(1940), Pissoir (1941), Opera n. 34 (1940).
		
		La  formula “Repetition as 
		explanation” di Gertrude Stein sembra aver ispirato molti dei primi 
		lavori di Rama: frammenti dei suoi relitti che contrastano la tela 
		bianca con le loro linee nette, definendo uno spazio autonomo – ad un 
		tempo minaccioso e sinistro – sospeso in una dimensione metafisica pur 
		sempre priva di quel sapore arcitettonico presente nel lavoro di De 
		Chirico. Gli oggetti di Rama sono lì per essere guardati, divorati dai 
		nostri occhi e nello stesso istante pronti per guardarci a loro volta. 
		Infatti, se una delle caratteristiche delle statue e delle teste dipinte 
		da De Chirico è l’assenza degli occhi,l’interesse di Rama nel processo 
		reciproco di osservare ed essere osservati, nel doppio e spasmodico 
		movimento dell’occhio di chi osserva un’opera d’arte, nel suo sguardo 
		consapevole di essere a sua volta osservato, la spinse negli anni ’60 a 
		rappresenta bulbi oculari che fissano, seducono, anche se sono 
		esplicitamente falsi e sintetici, raggruppati o distribuiti sulla 
		superficie del  suo lavoro (Pornografia, 1963; Bricolage 1965; Bricolage 
		1967). False e sintetiche erano anche, in qualche modo le “sculture”di 
		Rama, fatte di supporti di metallo, stoffa e camere d’aria appese 
		soffici, rivoltate, forate e rattoppate, dalle sfumature grigio scuro, 
		marrone e nero. Presagi e immobilità di Birnam (1970) e Movimento e 
		immobilità di Birnam (1978) portarono il suo lavoro all’attenzione della 
		critica d’arte internazionale. Forse ricominciava a riconoscere nella 
		bellezza semplice,  estrema, quasi astratta dei suoi lavori la 
		materializzazione dei suoi primi lavori?Quale sarebbe stato il suo passo 
		successivo? In che cosa si sarebbero fuse quelle morbide strisce di 
		gomma?
		
		A emergere  furono ancora 
		una volta dei corpi che, esattamente come i corpi dei suoi primi lavori, 
		non sono mai completi, mai vestiti, ma intatti. Spesso si collocano al 
		di là delle connotazioni sessuali, sono ovviamente giovani, talvolta 
		sono angeli, talvolta indossano rigide corone di fiori sulle loro teste, 
		come in Seduzioni (1980), Venezia (1983),Numeri onde(1983). Serpenti, 
		rospi,insetti, draghi e minotauri appaiono e attraversano lo spazio 
		della tela come se quello fosse l’unico spazio disponibile per loro 
		mentre le figure umane sono sospense nel vuoto, così come i pezzi di 
		gomma erano stati sospesi nei suoi lavori del decennio precedente. 
		Stiamo assistendo alla formazione di un Giardino dell’Eden premoderno? 
		Certamente si tratta di un giardino che Marianne Moore, con la sua 
		visione dell’arte come “giardino immaginario con veri rospi dentro” 
		avrebbe amato: innocente,ispirato, incorruttibile.
		
		E furono proprio gli anni 
		’80quelli che iniziarono la sua ascesa – ancora oggi, nonostante l’età – 
		sempre più accelerata, vertiginosa e vertiginosa negli spazi e negli 
		ambienti internazionali che riconobbero,al di là del riconoscimento di 
		studiosi italiani, il suo status di prima donna della pittura del XX° 
		secolo. Prima donna accanto a Burgeois e Nevelson, fisicamente lontane 
		le une dalle altre, ma capaci di dar corpo a opere in cui finalmente 
		oggi si riconoscono sotterranee “affinità elettive”. Affinità che hanno 
		a che fare con l’ostinazione che contraddistinse e contraddistingue 
		tutte e tre: nessun cedimento alle regole del mercato. Coerenza totale 
		nei confronti di un atteggiamento e di un progetto formale severo, 
		visionario, lucido e allucinato al di là di ogni pensabile e possibile 
		compromesso con il gusto o le indicazioni altrui, fatta eccezione per 
		quelle dei maestri prescelti, dei modelli individuati da giovani e poi 
		da artiste mature. Dure, dolci e indipendenti, come una donna è o 
		dovrebbe essere.
		
		Fu grazie a una donna, 
		nonostante l’ammirazione e la solidarietà di grandi figure maschili – e 
		non solo nell’ambiente dell’arte – che  Carol “vide la luce” proprio 
		negli anni ’80, quando Lea Vergine organizzò a Milano, presso il Palazzo 
		Reale, “L’altra metà dell’avanguardia 1910-1940”. La mostra poi si 
		riapri a Roma e a Stoccolma.
		
		Ne seguirono decine di 
		altre. La XLV Biennale di Venezia nel 1993. Nel1996 “Inside the 
		Invisibile” presso lo Institute of Contemporary Art di Boston e la 
		grande esposizione del 1998 allo Stedelijk Museum di Amsterdam. La 
		stessa mostra fu poi richiesta da Boston. Fama 
		internazionale,riconoscimento pubblico. Quale artista può – a ottanta 
		anni portati come una splendida quarantenne .- desiderare di più? Certo 
		non Carol che continua inventare, reinventare, lavorare e dunque 
		ringiovanire ogni annodi più, nello sguardo e nel tratto della mano, nel 
		vigore del sdegno e della pennellata. Ed è per questo che oggi accetta 
		nonostante la sua riservatezza e il senso della misteriosa privacy che 
		avvolge la sua esistenza, di ripensare quei lontani anni ’40: i suoi 
		esordi, meno riservati sul piano pubblico, ma altrettanto coraggiosi sul 
		piano professionale. Per  questo lascia che si entri nella sua 
		irripetibile casa,un’opera d’arte di per sé. Tutto perfetto: “Io ho un 
		disordine tale che ho bisogno di avere tutte le cose dritte per cercare 
		di avere un certo ordine mentale” Tiene a puntualizzare. Mi guardo 
		intorno e lei, intuendo la mia domanda, dichiara assertiva: “Ho sempre 
		preso il materiale che avevo vicino, accanto, a portata di mano”. 
		Capisco che sta parlando della sua casa e nel contempo del suo lavoro. 
		Mi  torna in mente  il saggio di Edoardo Sanguineti suo grande amico, 
		“Carol o del Bricolage”. Dunque è così che lavora. I denti della zia 
		Carolina, quelli di Massimo Mila, le gomme, vecchie carte, sacchi 
		postali di iuta (il ciclo della mucca pazza). Lo sguardo fermo, 
		premette: “Quando l’arte entra in forme spiegabili, io mi spavento… io 
		vorrei piacere a tutti”. Dunque un segnale preciso. A quel punto o, 
		forse un po’ provocatoriamente, le chiedo di spiegarmi perché la sua 
		pittura, fin dagli inizi, è popolata di scarne, anoressiche figure 
		femminili (dovrò arrivare alle Parche) Legate, costrette aletto, 
		contratte dal dolore e dalla solitudine da Appassionata degli anni 40 e 
		poi ancora lo stesso tema negli anni 80, Stanza con Appassionata. Donne 
		sospese, abbandonate, allucinate come Dorina: sembrano mitologici 
		relitti segnati dalla violenza di falli arroganti. Il motivo è semplice: 
		“Io voglio indicare il dolore in generale. Non so dividere, fare una 
		distinzione tra uomini e donne. Ci sono le donne. I primi incidenti 
		della vita .Nonna Carolina e mia madre, ma anche mio padre. Ci vuole una 
		preparazione che io non ho. Non credo di poterlo fare. Il dolore ci 
		riguarda tutti”. Le chiedo allora perché “Le Parche”. Perché proprio 
		loro, tre donne cui Esiodo, Virgilio, Eschilo hanno attribuito poteri 
		che neppure Zeus aveva, cui Zeus doveva sottostare: Cloto, la filatrice; 
		Lachesi, la misuratrice; Atropo colei che non si può evitare, colei che 
		recide il filo della vita, quando è il momento, quando cioè lo decide. 
		Mi guarda con sospetto quando le ricordo che la Moira, le Parche, 
		costituiscono una norma dominante della natura, quella che 
		controbilancia il capriccio degli Dei. Sono loro l’espressione della 
		fissità delle leggi fisiche e morali, che hanno cura, mantengono 
		l’equilibrio del cosmo. Carol naturalmente “sa”al di là delle mie 
		provocazioni: “Perché le Parche? Perché le donne, tre donne? Perché le 
		donne sono un suggerimento per e di ognuno di noi. Una donna rappresenta 
		la madre, la madre di tutti i figli. Un uomo altrettanto, è 
		importante,ma non ha nulla a che fare con tutto questo. Le donne, alcune 
		donne,hanno la fortuna – quando sono eccezionali – di distinguere dalle 
		altre. Solo questo” So bene – sottolineo – che le Parche che sono qui 
		esposte, sono acqueforti, quindi in bianco e nero, ma le ricordo, “Hai 
		anche lavorato sullo stesso tema in olio, a colori forti, assertivi. 
		<”Certo – risponde – così è. La vita è fatta di violenza di cose dolci e 
		decorative – poi prosegue – a proposito delle tue riflessioni sulla 
		Nevelson e su Louise Bourgeois sul rapporto con la quale Franco Masoero 
		ha organizzato una generosa,almeno per me,mostra speculare,devo dire che 
		per me Bourgeois e Nevelson sono donne eccezionali come le Parche, se 
		non meglio! Generoso Macero, come da sempre lo è stato Fiancalo Salzano. 
		Lamostraera una doppia personale. Avvenne nel2000  a Torino e poi al 
		Musèe Jenisch a Vevey.
		
		Pongo a Carol un’ultima 
		domanda, forse non l’ultima semi concede ancora la sua attenzione. La 
		domanda è spinosa. Riguarda la guerra. Tutti sappiano che per il fatto 
		che un’opera figurativa o letteraria diventi “pubblica, un certo anno, 
		non significa che non ci sia stata una gestazione lunga, non ci siano 
		stati ripensamenti, prove, tentativi, carte gettate, come spesso capita 
		anche a chi scrive. Sospetto che lo stesso avvenga per l’arte, la mia 
		domanda ha a che vedere con gli anni ’40, la guerra dunque. Le chiedo se 
		nei suoi lavoro di allora ci siano riferimenti, allusioni, ricorsi. La 
		risposta è secca: “Certo, c’è una stretta parentela, ma io preferisco 
		non ricordare. Dunque le Parche, la guerra. E pure un legame ci deve 
		essere. Un grande artista non sa davvero mai cosa il suo lavoro stia 
		svelando, ma allo stesso tempo è calato nel mondo che lo circonda,dunque 
		ritorno ancora e per l’ultima volta alle Parche. Le chiedo: “Carol non 
		pensi che per paradossale Parche siano proprio coloro che decidono della 
		nascita, della vita e della morte e siano donne? Fino a che punto tu che 
		ami il paradosso, le picchiate rapinose, i voli, come confessavi al tuo 
		amato Fossati, fai proprio con le Parche, ponendole al centro del tuo 
		discorso, un passo oltre la misoginia?” “Un passo oltre? Forse si. La 
		misoginia è stata una sorta di razzismo. Non voglio dire che l’uomo sia 
		migliore. Voglio dire che l’uomo ha problemi diversi. Le parche 
		rappresentano il Femminile. La gentilezza, la cultura, la professione. 
		Ciò che presiede a tutto è sempre il femminile che è quasi sempre 
		addolcito, più preparato”. Non oso chiedere altro. La guerra, come 
		sappiano è una questione maschile. Le donne fanno quel che possono. 
		Tessono, intrecciano i fili, li recidono stando accanto agli uomini – e 
		mi ripeto – come possono. Nel momento in cui ringrazio Carol mi dona un 
		saluto che non dimenticherò. Mi chiama ”amorosa” significa saper 
		accettare amore ma allo stesso tempo darlo. Forse al di là del genere e 
		del gender, che riguardi uomini o donne. Questa è – sospetto- la sua 
		lezione. Se non altro quella in cui il suo lavoro ci parla.
		
		Torino, gennaio 2003