FUKUSHI ITO

 

FUKUSHI ITO

RICOMPORRE

di Marco Meneguzzo...

Fukushi Ito ricompone frammenti di frammenti. Tutto il suo lavoro- a partire dalle opere di una decina d’anni fa, quando forme asimmetriche geometriche, frammenti luminosi con scritte computerizzate, erano sottolineate da neon – è improntato a una “ricomposizione”.
“Ricomporre” è una pratica difficile, che comporta, alla base, sia la consapevolezza che qualcosa si è frantumato, sia la convinzione che questo qualcosa debba in qualche modo essere ricostruito e restituito alla considerazione di chi guarda o, meglio, di chi pensa. Ma la ricomposizione, che è anche un’azione “pietosa” perché restituisce alla vista una forma così come la conoscevamo, o almeno con le fattezze non troppo irriconoscibili, non riesce mai a ricostruire esattamente l’unità iniziale: al massimo ce ne fornisce il ricordo, ci racconta di un momento in cui tutto era “composto”, e non aveva necessità di essere “ricomposto”. E’, dunque, una pratica della memoria.
Certo, fino a pochi anni fa, quando il soggetto preminente di Ito sembrava essere la luce – i neon, i light box erano sì supporto all’immagine, ma anche essenza di quell’immagine, costituita spesso da parole che richiamavano ancora alla sostanza luminosa… - l’aspetto della ricostruzione non appariva così evidente, perché la luce non ha bisogno di essere ricostruita, e tuttavia già quelle erano forme inquiete, instabili, risultato quasi geologico di scaglie e di faglie in continuo scivolamento le une sulle altre (in questo caso la parola inglese “shift” comprende in sé sia il concetto di scivolamento, che di sfasamento, e anche di prima azione elettronica – il tasto “shift” è ormai un’indicazione familiare… -, ed è quindi molto più evocativo per il lavoro di Ito di tutte le varie parole italiane che ne indicano solo una parte). Il quadro non esiste più. Quella forma così precisa, tranquillizzante e sommamente stabile è definitivamente scomparsa: tutt’al più, come si diceva prima, la nostra azione può cercare di ricomporre quello stato di felice unità, ma al contempo non può che restituircene solo in parte la forma. Ecco perché i lavori di Ito hanno sempre quell’apparenza di puzzle, di frammento alla ricerca di altri frammenti: è il ricordo di un’unità perduta, di cui si cerca di riconquistare almeno un frammento compiuto, e da quello passare a due, tre altri frammenti che allarghino il nostro orizzonte sino a collegare pensieri e immagini dispersi, consapevoli che tutto ciò avviene nel vuoto, nella mancanza assoluta di un quadro d’insieme.  Negli ultimi lavori, Ito sembra  aver accentuato il lato vagamente “politico” di questa ricomposizione, attraverso due processi esecutivi strettamente collegati tra di loro. Ha scelto infatti di servirsi di immagini estrapolate dai notiziari televisivi, e ha scelto immagini forti, immediatamente riconoscibili e riconducibili a fatti, mescolandole con immagini neutre di paesaggio. Con questa duplice e unica azione – la televisione è, nel bene e nel male, collegata al concetto di informazione di massa -, Ito ha enfatizzato il concetto di frammento moltiplicando, tra l’altro, la stessa figura, lo stesso frammento di storia: che si tratti del volto sfacciato e un po’ retorico, ma efficace, di Oriana Fallaci, o del tipico paesaggio di strada mediorientale, sicuro teatro di qualche attentato, la moltiplicazione dell’immagine porta al risultato della saturazione visiva, della paralisi dell’interpretazione. Milioni di immagini tutte uguali che costituiscono il nostro immaginario quotidiano impediscono di ricostruire una storia coerente, eppure in cuor nostro sappiamo che questa storia esiste, deve esistere: la difficoltà del frammento nel frammento ci rende almeno consapevoli che un tempo credevamo che la storia avesse un senso.

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